“Sono l'uomo che va in un ristorante, si siede al tavolo e aspetta pazientemente, mentre il cameriere fa tutto, meno annotare la mia richiesta.
Sono l'uomo che entra in un negozio e aspetta zitto, mentre i commessi concludono le loro conversazioni private.
Sono l'uomo che entra da un benzinaio e non usa mai il clacson, ma aspetta pazientemente che l'impiegato finisca la lettura del suo giornale.
Sono l'uomo che spiega la sua disperata urgenza per un pezzo, ma non si lamenta di riceverlo dopo tre settimane di attesa.
Sono l'uomo che, quando entra in un centro commerciale, sembra chiedere un favore, implorare per un sorriso, sperando solo di essere notato.
Devi pensare che io sia una persona silenziosa, paziente, un tipo che non crea mai problemi... ma sbagli.
Sai chi sono? Sono il cliente che non torna mai più!
Mi diverto guardando milioni spesi ogni anno in annunci di ogni ordine, per portarmi di nuovo alla tua azienda. Quando sono andato lì per la prima volta, tutto quello che avresti dovuto fare era solo una piccola cosa, semplice ed economica: trattarmi con un po’ più di cortesia.
C’è solo un capo: il cliente. E può licenziare tutte le persone dell'azienda, del presidente al bidello, semplicemente portando i suoi soldi altrove”
Sam Walton (Walmart)
lunedì 2 settembre 2019
mercoledì 1 maggio 2019
Baby Gang: cresciuti in contesti di impunità.
La notizia della morte di Antonio Stano solleva in questi giorni una serie di interrogativi soprattutto in ambito educativo. L’uomo di 66 anni è deceduto dopo essere stato ripetutamente seviziato da una baby gang composta da 12 minorenni e 2 maggiorenni a Manduria (TA).
Su un articolo si legge:
Sulla questione si è espressa recentemente anche l'insegnante di una scuola elementare pugliese frequentata da alcuni degli indagati. Le sue parole sono state piuttosto dure: «Per carità la noia... Se ci fossero un cinema e un teatro a Manduria non esisterebbero le baby gang? Qui il problema è uno, ma costa ammetterlo: questi ragazzini vivono in un contesto di impunità fin da piccoli grazie a genitori pronti a difenderli sempre e comunque, pur davanti a evidenze vergognose».
[...]
Ha dunque proseguito: «Accusare una comunità è azzardato piuttosto concentriamoci su questi ragazzini sempre più sfrontati. Potrei elencare decine di episodi di cui sono stata protagonista io ma anche tanti miei colleghi, atteggiamenti genitoriali che hanno mortificato e tarpato la mia attitudine professionale. Mamme e papà che si sentono in diritto di inveirti contro perché hai osato rimproverare l’alunno. Le storie che ogni tanto si sentono sono vere: e passare dalla passione per l’insegnamento al lassismo da parte dell’istituzione scolastica per una sensazione di impotenza è purtroppo tutt’altro che difficile».
Oggi si parla spesso delle carenze della scuola italiana e del fatto che la qualità dell'insegnamento degli ultimi decenni sarebbe progressivamente calata. Discorso legittimi, urge tuttavia una riflessione sul ruolo genitoriale che spesso delega fin troppo l'educazione dei propri figli alla scuola con la quale tuttavia non collabora.
Anzi, una categoria di genitori, che da una parte scaricano interamente la responsabilità dei figli alle istituzioni, dall'altra ne contestano/combattono apertamente l'operato arrivando a minacciare gli insegnanti e i dirigenti scolastici.
Tale comportamento, deleterio per i ragazzi, è frutto di una grande ignoranza e pigrizia da parte di genitori che non si prendono la responsabilità di una sana educazione dei loro figli, ma preferiscono scaricarla a qualcun'altro. Di fronte agli scarsi risultati poi si sentono a posto con la coscienza e naturalmente danno la colpa agli altri perché non si rendono conto che l'imprinting iniziale e l'esempio continuo nella vita di tutti i giorni viene dato prima di tutto in famiglia da parte dei genitori.
Su un articolo si legge:
Sulla questione si è espressa recentemente anche l'insegnante di una scuola elementare pugliese frequentata da alcuni degli indagati. Le sue parole sono state piuttosto dure: «Per carità la noia... Se ci fossero un cinema e un teatro a Manduria non esisterebbero le baby gang? Qui il problema è uno, ma costa ammetterlo: questi ragazzini vivono in un contesto di impunità fin da piccoli grazie a genitori pronti a difenderli sempre e comunque, pur davanti a evidenze vergognose».
[...]
Ha dunque proseguito: «Accusare una comunità è azzardato piuttosto concentriamoci su questi ragazzini sempre più sfrontati. Potrei elencare decine di episodi di cui sono stata protagonista io ma anche tanti miei colleghi, atteggiamenti genitoriali che hanno mortificato e tarpato la mia attitudine professionale. Mamme e papà che si sentono in diritto di inveirti contro perché hai osato rimproverare l’alunno. Le storie che ogni tanto si sentono sono vere: e passare dalla passione per l’insegnamento al lassismo da parte dell’istituzione scolastica per una sensazione di impotenza è purtroppo tutt’altro che difficile».
Oggi si parla spesso delle carenze della scuola italiana e del fatto che la qualità dell'insegnamento degli ultimi decenni sarebbe progressivamente calata. Discorso legittimi, urge tuttavia una riflessione sul ruolo genitoriale che spesso delega fin troppo l'educazione dei propri figli alla scuola con la quale tuttavia non collabora.
Anzi, una categoria di genitori, che da una parte scaricano interamente la responsabilità dei figli alle istituzioni, dall'altra ne contestano/combattono apertamente l'operato arrivando a minacciare gli insegnanti e i dirigenti scolastici.
Tale comportamento, deleterio per i ragazzi, è frutto di una grande ignoranza e pigrizia da parte di genitori che non si prendono la responsabilità di una sana educazione dei loro figli, ma preferiscono scaricarla a qualcun'altro. Di fronte agli scarsi risultati poi si sentono a posto con la coscienza e naturalmente danno la colpa agli altri perché non si rendono conto che l'imprinting iniziale e l'esempio continuo nella vita di tutti i giorni viene dato prima di tutto in famiglia da parte dei genitori.
venerdì 22 marzo 2019
Over 55 e obsolescenza delle competenze
L’aumento di lavoratori over 55 evidenzia la necessità di contrastare e, se possibile anticipare, i rischi dell’obsolescenza professionale, trasformando un “problema” in una risorsa per il sistema produttivo italiano
Condivido questo articolo di Mara Guarino
I trend demografici in atto costringono il mercato del lavoro a fare i conti con l’esigenza di interventi a sostegno dell’occupazione dei lavoratori over 55 che, complici l’aumento della longevità e il progressivo slittamento in avanti dell’età pensionabile, rappresentano una delle fasce d’età maggiormente in crescita in Italia sotto il profilo occupazionale. La forza lavoro invecchia, la durata media delle carriere professionali si allunga, mentre aumenta il numero di occupati italiani di età compresa tra i 55 e i 64 anni, pari a 569.287 nel 2000 e salito fino a 1.588.923 nel 2016: un dato quasi triplicato nel corso di un quindicennio che obbliga inevitabilmente a delle riflessioni.
Se un lato della medaglia è allora indubbiamente rappresentato dall'introduzione di misure mirate ad aumentare la flessibilità in uscita, dall’altra parte sembrano farsi sempre più urgenti strategie di job redesign utili a creare ambienti lavorativi più favorevoli agli occupati senior o al loro re-impiego. Strategie che non sottovalutino oltretutto l’importanza di offrire agli over 55 tutte gli strumenti necessari ad acquisire le skills, innanzitutto digitali, necessarie per restare al passo con la quarta rivoluzione industriale.
Una spinta alla digitalizzazione che offre importanti opportunità occupazionali, ma pone al tempo stesso questioni di non minor rilievo, prima fra tutte quella dell’obsolescenza delle competenze professionali. I dati dell’ultimo Rapporto sulla competitività dei settori produttivi mostrano come nelle imprese italiane la maggiore propensione alla digitalizzazione si sia effettivamente accompagnata a una maggiore creazione di posti di lavoro: in particolare, tra le cosidette “Digitali compiute” (alto capitale e alta digitalizzazione) e “Digitali incompiute” (capitale fisico medio-basso, basso capitale umano, alta digitalizzazione), un’impresa su due ha aumentato le posizioni lavorative di almeno il 3,5%, un valore superiore alla media complessiva e oltre cinque volte superiore a quello delle imprese non digitalizzate.
Come prevedibile, il traino è particolarmente forte per le professioni ICT ma, sebbene la digital transformation non abbia ancora “sconvolto” il mercato del lavoro in tutti i suoi settori (verosimilmente per l’ancora limitata permeabilità in alcuni ambiti), già si evidenzia, e non solo all'interno dei comparti ICT, un mismatch molto alto tra le competenze digitali e trasversali richieste e quelle effettivamente in possesso dei lavoratori.
In questo quadro, una particolare attenzione va riservata agli over 50: mediamente, il 40% della forza lavoro in Europa di quell'età non ha skills digitali, mentre il 14% non ne ha in misura adeguata. E, spesso, uno degli ostacoli maggiori alla fruizione digitale è oltretutto rappresentato dalla scarsa conoscenza della lingua inglese. Una risposta logica al problema risiede allora nella formazione: una soluzione apparentemente ovvia, ma in verità forse non così “scontata” se si pensa ai dati raccolti da IPSOS per Google, secondo cui nel biennio 2014-2016 solo il 14% dei lavoratori over 50 interessati dalla ricerca ha avuto la possibilità di fruire di attività formative in campo digitale.
Del resto, se il contesto produttivo è oggi tale da richiedere persino ai dipendenti più giovani un costante aggiornamento delle proprie conoscenze e capacità (anzi, l'attenzione nei confronti degli "over" ha forse in parte mascherato questo problema), la crescente presenza di lavoratori senior non può che rappresentare un’ulteriore spinta delle politiche attive per il lavoro, da una parte, verso modelli di formazione professionale continuativa on the job e, dall’altra, verso eventuali soluzioni di ricollocamento e riqualificazione realizzate a mezzo di formazione mirata e su misura. Il tutto senza sottovalutare il coinvolgimento attivo dei lavoratori stessi e la possibilità di instaurare un processo virtuoso di reverse mentoring, agevolando lo scambio di competenze non solo dai profili junior a quelli più senior, ma anche nella direzione opposta.
Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 23/6/2018
Condivido questo articolo di Mara Guarino
I trend demografici in atto costringono il mercato del lavoro a fare i conti con l’esigenza di interventi a sostegno dell’occupazione dei lavoratori over 55 che, complici l’aumento della longevità e il progressivo slittamento in avanti dell’età pensionabile, rappresentano una delle fasce d’età maggiormente in crescita in Italia sotto il profilo occupazionale. La forza lavoro invecchia, la durata media delle carriere professionali si allunga, mentre aumenta il numero di occupati italiani di età compresa tra i 55 e i 64 anni, pari a 569.287 nel 2000 e salito fino a 1.588.923 nel 2016: un dato quasi triplicato nel corso di un quindicennio che obbliga inevitabilmente a delle riflessioni.
Se un lato della medaglia è allora indubbiamente rappresentato dall'introduzione di misure mirate ad aumentare la flessibilità in uscita, dall’altra parte sembrano farsi sempre più urgenti strategie di job redesign utili a creare ambienti lavorativi più favorevoli agli occupati senior o al loro re-impiego. Strategie che non sottovalutino oltretutto l’importanza di offrire agli over 55 tutte gli strumenti necessari ad acquisire le skills, innanzitutto digitali, necessarie per restare al passo con la quarta rivoluzione industriale.
Una spinta alla digitalizzazione che offre importanti opportunità occupazionali, ma pone al tempo stesso questioni di non minor rilievo, prima fra tutte quella dell’obsolescenza delle competenze professionali. I dati dell’ultimo Rapporto sulla competitività dei settori produttivi mostrano come nelle imprese italiane la maggiore propensione alla digitalizzazione si sia effettivamente accompagnata a una maggiore creazione di posti di lavoro: in particolare, tra le cosidette “Digitali compiute” (alto capitale e alta digitalizzazione) e “Digitali incompiute” (capitale fisico medio-basso, basso capitale umano, alta digitalizzazione), un’impresa su due ha aumentato le posizioni lavorative di almeno il 3,5%, un valore superiore alla media complessiva e oltre cinque volte superiore a quello delle imprese non digitalizzate.
Come prevedibile, il traino è particolarmente forte per le professioni ICT ma, sebbene la digital transformation non abbia ancora “sconvolto” il mercato del lavoro in tutti i suoi settori (verosimilmente per l’ancora limitata permeabilità in alcuni ambiti), già si evidenzia, e non solo all'interno dei comparti ICT, un mismatch molto alto tra le competenze digitali e trasversali richieste e quelle effettivamente in possesso dei lavoratori.
In questo quadro, una particolare attenzione va riservata agli over 50: mediamente, il 40% della forza lavoro in Europa di quell'età non ha skills digitali, mentre il 14% non ne ha in misura adeguata. E, spesso, uno degli ostacoli maggiori alla fruizione digitale è oltretutto rappresentato dalla scarsa conoscenza della lingua inglese. Una risposta logica al problema risiede allora nella formazione: una soluzione apparentemente ovvia, ma in verità forse non così “scontata” se si pensa ai dati raccolti da IPSOS per Google, secondo cui nel biennio 2014-2016 solo il 14% dei lavoratori over 50 interessati dalla ricerca ha avuto la possibilità di fruire di attività formative in campo digitale.
Del resto, se il contesto produttivo è oggi tale da richiedere persino ai dipendenti più giovani un costante aggiornamento delle proprie conoscenze e capacità (anzi, l'attenzione nei confronti degli "over" ha forse in parte mascherato questo problema), la crescente presenza di lavoratori senior non può che rappresentare un’ulteriore spinta delle politiche attive per il lavoro, da una parte, verso modelli di formazione professionale continuativa on the job e, dall’altra, verso eventuali soluzioni di ricollocamento e riqualificazione realizzate a mezzo di formazione mirata e su misura. Il tutto senza sottovalutare il coinvolgimento attivo dei lavoratori stessi e la possibilità di instaurare un processo virtuoso di reverse mentoring, agevolando lo scambio di competenze non solo dai profili junior a quelli più senior, ma anche nella direzione opposta.
Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 23/6/2018
giovedì 14 marzo 2019
Danni psicologici da social
Un video interessante che conferma quanto penso anch'io già da tempo...
In particolare mi sono convinto che a partire dai vecchi sms, per poi passare ai commenti dei social, ci sia stato un processo di progressiva riduzione della capacità linguistica di esprimere i propri pensieri.
Mi spiego, a scuola ci hanno insegnato l'analisi logica, grammaticale e del periodo; ora, tra i ragazzi avverto una difficoltà a produrre periodi con frasi principali e subordinate, anzi, a malapena si enuncia una frase, visto che si usa fin troppo abbondantemente l'emoticon.
Sembra sia diventato impossibile esprimere un pensiero complesso e per questo si comunichi sempre più a monosillabi...
La cosa mi lascia perplesso, ma gli effetti non sono ancora chiari e tanto meno eventuali rimedi.
Per il momento i comportamenti più saggi sono la prudenza e l'equilibrio nell'utilizzo dei social e dei moderni mezzi di comunicazione.
Mi spiego, a scuola ci hanno insegnato l'analisi logica, grammaticale e del periodo; ora, tra i ragazzi avverto una difficoltà a produrre periodi con frasi principali e subordinate, anzi, a malapena si enuncia una frase, visto che si usa fin troppo abbondantemente l'emoticon.
Sembra sia diventato impossibile esprimere un pensiero complesso e per questo si comunichi sempre più a monosillabi...
La cosa mi lascia perplesso, ma gli effetti non sono ancora chiari e tanto meno eventuali rimedi.
Per il momento i comportamenti più saggi sono la prudenza e l'equilibrio nell'utilizzo dei social e dei moderni mezzi di comunicazione.
domenica 24 febbraio 2019
IKIGAI, la ragione di vita.
L'Ikigai (生き甲斐?) (iki-vivere, gai-ragione) è l'equivalente giapponese di espressioni italiane quali "ragione di vita", "ragion d'essere".
L'Ikigai per l'appunto è un termine che, nella cultura giapponese, indica quel qualcosa che conferisce senso alla nostra vita, quella cosa per cui vale la pena alzarsi dal letto la mattina, qualcosa che rende la propria vita significativa e anche utile agli altri.
L'Ikigai non deve essere per forza una qualcosa di grandioso, come portare la gente su Marte o eradicare il cancro dalla faccia della terra.
Essendo un concetto squisitamente personale, capita spesso che le persone sviluppino un proprio scopo partendo da ciò che è accaduto alla propria famiglia o agli amici.
Pensa, ad esempio, a tutte quelle associazioni di beneficenza che vengono fondate dopo la morte di una persona cara e che si impegnano nel sociale.
QUAL E' LA STRUTTURA DELL'IKIGAI?
L'Ikigai è formato da quattro elementi:
AVERE UN IKIGAI FA BENE ANCHE AL SONNO
Infine, avere uno scopo, e quindi un buon motivo per alzarsi dal letto la mattina, migliora anche la qualità del sonno, secondo alcuni ricercatori dell'Università di Northwestern.
Jason Ong, uno degli autori, afferma che dare uno scopo nella vita alle persone potrebbe essere una strategia anti-farmaco per eliminare tutti quei disturbi del sonno che caratterizzano la nostra società.
E tu, hai trovato il tuo Ikigai? E se la risposta è sì, qual è e come sta cambiando la tua vita?
L'Ikigai per l'appunto è un termine che, nella cultura giapponese, indica quel qualcosa che conferisce senso alla nostra vita, quella cosa per cui vale la pena alzarsi dal letto la mattina, qualcosa che rende la propria vita significativa e anche utile agli altri.
L'Ikigai non deve essere per forza una qualcosa di grandioso, come portare la gente su Marte o eradicare il cancro dalla faccia della terra.
Essendo un concetto squisitamente personale, capita spesso che le persone sviluppino un proprio scopo partendo da ciò che è accaduto alla propria famiglia o agli amici.
Pensa, ad esempio, a tutte quelle associazioni di beneficenza che vengono fondate dopo la morte di una persona cara e che si impegnano nel sociale.
QUAL E' LA STRUTTURA DELL'IKIGAI?
L'Ikigai è formato da quattro elementi:
- ciò che ami fare,
- ciò che sei bravo a fare,
- ciò per cui puoi essere pagato,
- e ciò di cui il mondo ha bisogno.
- Fare qualcosa senza passione, sebbene si è bravi a farla, si venga pagati e il mondo lo richiede, ci fa sentire confortati ma anche vuoti. E' il caso di quei lavori che disprezziamo, ma che siamo "obbligati" a fare per sopravvivere.
- Fare qualcosa senza saperla fare veramente, sebbene la si ami, si venga pagati e il mondo lo richiede, ci eccita ma ci dà anche insicurezza perché sappiamo che è tutto precario e che potrebbe svanire da un momento all'altro.
- Fare qualcosa senza essere pagati, sebbene la si ami, si è bravi a farla e il mondo lo richiede, ci dà gioia ma anche frustrazione. E' la frustrazione di chi sente di essere speciale e che là fuori qualcuno sta sfruttando le sue abilità. E' il caso degli stage e dei volontariati infiniti, dove la persona non viene retribuita come meriterebbe.
- Fare qualcosa che il mondo non necessita, sebbene la si ami, si è bravi a farla e si venga pagati, dà soddisfazione, ma anche senso di inutilità. Rientrano in questa categoria tutte quelle persone che, per arricchirsi, sanno di dover mentire e danneggiare il prossimo (o l'ambiente).
AVERE UN IKIGAI FA BENE ANCHE AL SONNO
Infine, avere uno scopo, e quindi un buon motivo per alzarsi dal letto la mattina, migliora anche la qualità del sonno, secondo alcuni ricercatori dell'Università di Northwestern.
Jason Ong, uno degli autori, afferma che dare uno scopo nella vita alle persone potrebbe essere una strategia anti-farmaco per eliminare tutti quei disturbi del sonno che caratterizzano la nostra società.
E tu, hai trovato il tuo Ikigai? E se la risposta è sì, qual è e come sta cambiando la tua vita?
venerdì 8 febbraio 2019
Il viaggio dell'eroe
In questo periodo non si fa che parlare di Bohemian Rhapsody, il biopic (biographical picture) sulla storia dei Queen e del loro leader Freddie Mercury.
Naturalmente la critica si divide e tra i fan c'è una spaccatura tra chi ne è entusiasta e chi invece è totalmente deluso anche per il fatto che nel film sono contenute alcune incongruenze con la realtà dei fatti.
Ammetto di essere anch'io un fan dello storico gruppo inglese, pertanto il mio giudizio non è esente da un certo condizionamento, ma cercando di essere più oggettivo possibile posso dichiarare che la verità sta (come spesso accade) nel mezzo.
Vi spiego meglio: il protagonista del biopic è Freddie Mercury e, nonostante la sia vita sia stata veramente avventurosa (la sua provenienza orientale, le sue attitudini sessuali, la sua creatività, il successo, le controversie, ecc.), non può essere esattamente e fedelmente riproducibile come trama di un film (che peraltro avrebbe un epilogo abbastanza triste...).
Se gli autori avessero rispettato pedissequamente la verità storica non staremmo parlando di un film, ma di un puro documentario biografico (con tutte le noie del caso).
Nasce quindi l'esigenza di "romanzare" le vicende e raccordarle a quello che è chiamato in gergo cinematografico "il viaggio dell'eroe".
In pratica, nella creazione della sceneggiatura si adattano i fatti oggettivi realmente accaduti alle esigenze di questo "viaggio" al fine di trasmettere emozioni agli spettatori.
Ecco di cosa sto parlando...
Come si può osservare dalla figura, il percorso inizia con la chiamata all'avventura che corrisponde al momento in cui Freddie entra nella band e prosegue attraverso l'incontro col mentore, in questo caso l'amante Mary Austin.
Fin qui tutto bene, ma poi si attraversa la soglia del conosciuto e, come sempre, quando si supera la zona di comfort, iniziano i problemi...
Pertanto, nel cuore del primo atto, si incontrano le prime difficoltà ricche di prove e fallimenti che, tuttavia, portano alla crescita del protagonista e allo sviluppo di nuove qualità. Nel film infatti i Queen stanno macinando successi sempre maggiori, ma con problematiche altrettanto complicate tra cui i rapporti con le case discografiche, il cambio di stile di vita verso il classico Sex, Drugs & Rock'n'Roll, i tour, e altri fatti che fanno da sfondo alla vicenda personale di Freddie che deve fare i conti con la sia identità sessuale.
Verso la fine del primo atto, si tocca però il punto centrale del film in cui avviene la cosiddetta morte e rinascita, ossia il momento di svolta dell'intera narrazione. In questo caso nascono una serie di problemi con gli stakeholders della band e tra i membri stessi dei Queen che attraversano un periodo di "pausa artistica", mentre nel frattempo aumenta dissidio personal e affettivo del protagonista che culmina con la scoperta della malattia.
La conclusione del primo atto è drammatica e fa riflettere su diversi aspetti psicologici e sociali non di poco conto.
Il secondo atto inizia invece con la rivelazione, ossia Freddie viene a conoscere la vera identità delle persone che aveva intorno e inizia un percorso di trasformazione attraverso il quale rimette insieme i cocci delle relazioni più vere, quella con i membri della band e quella con Mary, da cui non si è mai staccato veramente.
Entrando nel terzo atto, si assiste finalmente alla redenzione e al ritorno della situazione ottimale (salvo la malattia che in questo caso passa in secondo piano per ovvie ragioni di ... lieto fine) con la splendida e indimenticabile performance sul palco del Live Aid.
Detto ciò si spiega come la regia abbia dovuto manipolare qualche fatto storico per esigenze di trama che altrimenti non avrebbe emozionato come richiede un film di queste proporzioni.
Da parte mia il giudizio è quindi molto positivo perché grazie all'organizzazione degli eventi narrati è garantito il climax che porta a gustare in modo entusiasmante il gran finale sul palco. Inoltre gli attori sono stati scelti in modo impeccabile (alcuni praticamente sono dei sosia) e l'interpretazione di Malek è stata di altissimo livello.
Su tutto questo c'è inoltre la garanzia di Brian May e Roger Taylor che hanno supervisionato la realizzazione del biopic e quindi da fan di vecchia data mi allineo a considerare quest'opera un buon prodotto.
Naturalmente la critica si divide e tra i fan c'è una spaccatura tra chi ne è entusiasta e chi invece è totalmente deluso anche per il fatto che nel film sono contenute alcune incongruenze con la realtà dei fatti.
Ammetto di essere anch'io un fan dello storico gruppo inglese, pertanto il mio giudizio non è esente da un certo condizionamento, ma cercando di essere più oggettivo possibile posso dichiarare che la verità sta (come spesso accade) nel mezzo.
Vi spiego meglio: il protagonista del biopic è Freddie Mercury e, nonostante la sia vita sia stata veramente avventurosa (la sua provenienza orientale, le sue attitudini sessuali, la sua creatività, il successo, le controversie, ecc.), non può essere esattamente e fedelmente riproducibile come trama di un film (che peraltro avrebbe un epilogo abbastanza triste...).
Se gli autori avessero rispettato pedissequamente la verità storica non staremmo parlando di un film, ma di un puro documentario biografico (con tutte le noie del caso).
Nasce quindi l'esigenza di "romanzare" le vicende e raccordarle a quello che è chiamato in gergo cinematografico "il viaggio dell'eroe".
In pratica, nella creazione della sceneggiatura si adattano i fatti oggettivi realmente accaduti alle esigenze di questo "viaggio" al fine di trasmettere emozioni agli spettatori.
Ecco di cosa sto parlando...
Come si può osservare dalla figura, il percorso inizia con la chiamata all'avventura che corrisponde al momento in cui Freddie entra nella band e prosegue attraverso l'incontro col mentore, in questo caso l'amante Mary Austin.
Fin qui tutto bene, ma poi si attraversa la soglia del conosciuto e, come sempre, quando si supera la zona di comfort, iniziano i problemi...
Pertanto, nel cuore del primo atto, si incontrano le prime difficoltà ricche di prove e fallimenti che, tuttavia, portano alla crescita del protagonista e allo sviluppo di nuove qualità. Nel film infatti i Queen stanno macinando successi sempre maggiori, ma con problematiche altrettanto complicate tra cui i rapporti con le case discografiche, il cambio di stile di vita verso il classico Sex, Drugs & Rock'n'Roll, i tour, e altri fatti che fanno da sfondo alla vicenda personale di Freddie che deve fare i conti con la sia identità sessuale.
Verso la fine del primo atto, si tocca però il punto centrale del film in cui avviene la cosiddetta morte e rinascita, ossia il momento di svolta dell'intera narrazione. In questo caso nascono una serie di problemi con gli stakeholders della band e tra i membri stessi dei Queen che attraversano un periodo di "pausa artistica", mentre nel frattempo aumenta dissidio personal e affettivo del protagonista che culmina con la scoperta della malattia.
La conclusione del primo atto è drammatica e fa riflettere su diversi aspetti psicologici e sociali non di poco conto.
Il secondo atto inizia invece con la rivelazione, ossia Freddie viene a conoscere la vera identità delle persone che aveva intorno e inizia un percorso di trasformazione attraverso il quale rimette insieme i cocci delle relazioni più vere, quella con i membri della band e quella con Mary, da cui non si è mai staccato veramente.
Entrando nel terzo atto, si assiste finalmente alla redenzione e al ritorno della situazione ottimale (salvo la malattia che in questo caso passa in secondo piano per ovvie ragioni di ... lieto fine) con la splendida e indimenticabile performance sul palco del Live Aid.
Detto ciò si spiega come la regia abbia dovuto manipolare qualche fatto storico per esigenze di trama che altrimenti non avrebbe emozionato come richiede un film di queste proporzioni.
Da parte mia il giudizio è quindi molto positivo perché grazie all'organizzazione degli eventi narrati è garantito il climax che porta a gustare in modo entusiasmante il gran finale sul palco. Inoltre gli attori sono stati scelti in modo impeccabile (alcuni praticamente sono dei sosia) e l'interpretazione di Malek è stata di altissimo livello.
Su tutto questo c'è inoltre la garanzia di Brian May e Roger Taylor che hanno supervisionato la realizzazione del biopic e quindi da fan di vecchia data mi allineo a considerare quest'opera un buon prodotto.
mercoledì 30 gennaio 2019
Attenti a quei due!
Sapete chi sono questi due? Quello a destra è Primo Carnera, uno che da ragazzino mendicava per le strade di Sequals e fu costretto in totale povertà ad emigrare in Francia per trovare fortuna. Sette anni dopo conquista il titolo mondiale dei pesi massimi al Madison Square Garden di New York.
Quello a sinistra invece è Luigi Del Bianco, nato in nave mentre i suoi genitori stavano tornando a Meduno dagli Stati Uniti, un paesino montano del Friuli confinante con Sequals. A 11 anni Del Bianco va in Austria a fare l'apprendista scalpellino, all'età di 16 emigra a New York e inizia a fare il tagliapietre. Allo scoppio della Prima Guerra mondiale torna in Italia a combattere da volontario, per poi tornare in America a riprendere il lavoro che aveva lasciato. Dopo una serie di eventi, nel 1933 diventa capo-scultore del Monte Rushmore con la paga di $ 0,90 all'ora, troppo poco, quindi due anni dopo si licenzia. I lavori però non possono andare avanti senza di lui, quindi lo riassumono in qualità di capo-cantiere al doppio della cifra (che per la Depressione era molto). I leggendari occhi dei Presidenti di quel monumento, li ha eseguiti lui in persona.
Meduno e Sequals, sperduti in una Provincia che non esiste nemmeno più, insieme non raggiungo i 3800 abitanti. Perché dico queste cose? Perché è da questi personaggi che dobbiamo ripartire. Finiamola con le paure, la crisi i "non posso". All'epoca questi due non hanno prenotato i voli su Skyscanner e installato Skype alle loro mamme prima di partire. E allora, prima di lamentarvi della vostra situazione, chiedetevi perché state ancora lì con le mani in mano. Non stupitevi se non realizzate i vostri sogni rimanendo a dormire e soprattutto non deridete chi vedete correre per raggiungerli, perché molto probabilmente finirete con il lavorare per loro.
Quello a sinistra invece è Luigi Del Bianco, nato in nave mentre i suoi genitori stavano tornando a Meduno dagli Stati Uniti, un paesino montano del Friuli confinante con Sequals. A 11 anni Del Bianco va in Austria a fare l'apprendista scalpellino, all'età di 16 emigra a New York e inizia a fare il tagliapietre. Allo scoppio della Prima Guerra mondiale torna in Italia a combattere da volontario, per poi tornare in America a riprendere il lavoro che aveva lasciato. Dopo una serie di eventi, nel 1933 diventa capo-scultore del Monte Rushmore con la paga di $ 0,90 all'ora, troppo poco, quindi due anni dopo si licenzia. I lavori però non possono andare avanti senza di lui, quindi lo riassumono in qualità di capo-cantiere al doppio della cifra (che per la Depressione era molto). I leggendari occhi dei Presidenti di quel monumento, li ha eseguiti lui in persona.
Meduno e Sequals, sperduti in una Provincia che non esiste nemmeno più, insieme non raggiungo i 3800 abitanti. Perché dico queste cose? Perché è da questi personaggi che dobbiamo ripartire. Finiamola con le paure, la crisi i "non posso". All'epoca questi due non hanno prenotato i voli su Skyscanner e installato Skype alle loro mamme prima di partire. E allora, prima di lamentarvi della vostra situazione, chiedetevi perché state ancora lì con le mani in mano. Non stupitevi se non realizzate i vostri sogni rimanendo a dormire e soprattutto non deridete chi vedete correre per raggiungerli, perché molto probabilmente finirete con il lavorare per loro.
venerdì 4 gennaio 2019
Star bene da soli
La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista. (Bernardo Bertolucci)
Star bene da soli è una delle più grandi conquiste della vita. Ci sono diverse tipologie di solitudine: quella voluta, quella indotta e poi, la peggiore, quella ricorrente nonostante la presenza di qualcuno nella propria vita. Ci si sente veramente soli quando si ha accanto qualcuno che non dà importanza alla nostra persona.
Nella routine quotidiana ciascuno ha i propri spazi vuoti e proprio in questi spazi vuoti trovano dimora le nostre paure, le nostre incertezze e i nostri dolori. E' per questo che si tendiamo a riempire i nostri spazi vuoti, con persone, situazioni, interessi e molto altro. Di tutto pur di non sentire ancora e ancora quel dolore. La sofferenza mentale è spesso paralizzante, perché ci tocca proprio nella parte più intima di noi. Affonda lentamente dentro noi stessi ancorando le proprie radici saldamente e – a tratti – ci impedisce di respirare.
Corrono come se avessero il fuoco sotto il sedere in cerca di qualcosa che non si trova. Si tratta fondamentalmente della paura di affrontare se stessi, si tratta fondamentalmente della paura di essere soli. (Charles Bukowski)
Chi rifugge la solitudine è generalmente una persona che soffre e quando una persona prova una morsa lancinante allo stomaco farebbe qualsiasi cosa per avere uno spiraglio di luce. Rimanere da soli con se stessi fa paura, perché costringe ad avere a che fare con le proprie paure, quelle più nascoste, quelle che cerchiamo ogni giorno di soffocare dentro noi stessi.
La solitudine è come una lente d’ingrandimento: se sei solo e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai malissimo. (Giacomo Leopardi)
Una persona che riesce a stare bene da sola è una persona che ha imparato a conoscersi e, soprattutto, ad accettarsi. Ha imparato ad affrontare i propri fantasmi del passato, a volersi bene anche senza una persona accanto. Occorre parecchia forza per riuscire ad amare la propria solitudine. Solo una persona che ha veramente toccato il fondo è in grado poi di assaporare veramente la solitudine, e quando la solitudine è diventata una compagnia fedele anziché una nemica si inizia a dare valore al proprio tempo. Non ci si circonda più di false presenze. Non si scende più a compromessi con se stessi. Non ci si rassegna ad una presenza altalenante che ci fa comunque sentire soli.
Pensavo che la cosa peggiore nella vita fosse restare solo. No, non lo è. Ho scoperto invece che la cosa peggiore nella vita è quella di finire con persone che ti fanno sentire veramente solo. (Robin Williams)
Star bene da soli è una delle più grandi conquiste della vita. Ci sono diverse tipologie di solitudine: quella voluta, quella indotta e poi, la peggiore, quella ricorrente nonostante la presenza di qualcuno nella propria vita. Ci si sente veramente soli quando si ha accanto qualcuno che non dà importanza alla nostra persona.
Nella routine quotidiana ciascuno ha i propri spazi vuoti e proprio in questi spazi vuoti trovano dimora le nostre paure, le nostre incertezze e i nostri dolori. E' per questo che si tendiamo a riempire i nostri spazi vuoti, con persone, situazioni, interessi e molto altro. Di tutto pur di non sentire ancora e ancora quel dolore. La sofferenza mentale è spesso paralizzante, perché ci tocca proprio nella parte più intima di noi. Affonda lentamente dentro noi stessi ancorando le proprie radici saldamente e – a tratti – ci impedisce di respirare.
Corrono come se avessero il fuoco sotto il sedere in cerca di qualcosa che non si trova. Si tratta fondamentalmente della paura di affrontare se stessi, si tratta fondamentalmente della paura di essere soli. (Charles Bukowski)
Chi rifugge la solitudine è generalmente una persona che soffre e quando una persona prova una morsa lancinante allo stomaco farebbe qualsiasi cosa per avere uno spiraglio di luce. Rimanere da soli con se stessi fa paura, perché costringe ad avere a che fare con le proprie paure, quelle più nascoste, quelle che cerchiamo ogni giorno di soffocare dentro noi stessi.
La solitudine è come una lente d’ingrandimento: se sei solo e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai malissimo. (Giacomo Leopardi)
Una persona che riesce a stare bene da sola è una persona che ha imparato a conoscersi e, soprattutto, ad accettarsi. Ha imparato ad affrontare i propri fantasmi del passato, a volersi bene anche senza una persona accanto. Occorre parecchia forza per riuscire ad amare la propria solitudine. Solo una persona che ha veramente toccato il fondo è in grado poi di assaporare veramente la solitudine, e quando la solitudine è diventata una compagnia fedele anziché una nemica si inizia a dare valore al proprio tempo. Non ci si circonda più di false presenze. Non si scende più a compromessi con se stessi. Non ci si rassegna ad una presenza altalenante che ci fa comunque sentire soli.
Pensavo che la cosa peggiore nella vita fosse restare solo. No, non lo è. Ho scoperto invece che la cosa peggiore nella vita è quella di finire con persone che ti fanno sentire veramente solo. (Robin Williams)
Iscriviti a:
Post (Atom)