mercoledì 1 maggio 2019

Baby Gang: cresciuti in contesti di impunità.

La notizia della morte di Antonio Stano solleva in questi giorni una serie di interrogativi soprattutto in ambito educativo. L’uomo di 66 anni è deceduto dopo essere stato ripetutamente seviziato da una baby gang composta da 12 minorenni e 2 maggiorenni a Manduria (TA).
Su un articolo si legge:

Sulla questione si è espressa recentemente anche l'insegnante di una scuola elementare pugliese frequentata da alcuni degli indagati. Le sue parole sono state piuttosto dure: «Per carità la noia... Se ci fossero un cinema e un teatro a Manduria non esisterebbero le baby gang? Qui il problema è uno, ma costa ammetterlo: questi ragazzini vivono in un contesto di impunità fin da piccoli grazie a genitori pronti a difenderli sempre e comunque, pur davanti a evidenze vergognose».
[...]
Ha dunque proseguito: «Accusare una comunità è azzardato piuttosto concentriamoci su questi ragazzini sempre più sfrontati. Potrei elencare decine di episodi di cui sono stata protagonista io ma anche tanti miei colleghi, atteggiamenti genitoriali che hanno mortificato e tarpato la mia attitudine professionale. Mamme e papà che si sentono in diritto di inveirti contro perché hai osato rimproverare l’alunno. Le storie che ogni tanto si sentono sono vere: e passare dalla passione per l’insegnamento al lassismo da parte dell’istituzione scolastica per una sensazione di impotenza è purtroppo tutt’altro che difficile».

Oggi si parla spesso delle carenze della scuola italiana e del fatto che la qualità dell'insegnamento degli ultimi decenni sarebbe progressivamente calata. Discorso legittimi, urge tuttavia una riflessione sul ruolo genitoriale che spesso delega fin troppo l'educazione dei propri figli alla scuola con la quale tuttavia non collabora.
Anzi, una categoria di genitori, che da una parte scaricano interamente la responsabilità dei figli alle istituzioni, dall'altra ne contestano/combattono apertamente l'operato arrivando a minacciare gli insegnanti e i dirigenti scolastici.
Tale comportamento, deleterio per i ragazzi, è frutto di una grande ignoranza e pigrizia da parte di genitori che non si prendono la responsabilità di una sana educazione dei loro figli, ma preferiscono scaricarla a qualcun'altro. Di fronte agli scarsi risultati poi si sentono a posto con la coscienza e naturalmente danno la colpa agli altri perché non si rendono conto che l'imprinting iniziale e l'esempio continuo nella vita di tutti i giorni viene dato prima di tutto in famiglia da parte dei genitori.

venerdì 22 marzo 2019

Over 55 e obsolescenza delle competenze

L’aumento di lavoratori over 55 evidenzia la necessità di contrastare e, se possibile anticipare, i rischi dell’obsolescenza professionale, trasformando un “problema” in una risorsa per il sistema produttivo italiano
Condivido questo articolo di Mara Guarino


I trend demografici in atto costringono il mercato del lavoro a fare i conti con l’esigenza di interventi a sostegno dell’occupazione dei lavoratori over 55 che, complici l’aumento della longevità e il progressivo slittamento in avanti dell’età pensionabile, rappresentano una delle fasce d’età maggiormente in crescita in Italia sotto il profilo occupazionale. La forza lavoro invecchia, la durata media delle carriere professionali si allunga, mentre aumenta il numero di occupati italiani di età compresa tra i 55 e i 64 anni, pari a 569.287 nel 2000 e salito fino a 1.588.923 nel 2016: un dato quasi triplicato nel corso di un quindicennio che obbliga inevitabilmente a delle riflessioni.
Se un lato della medaglia è allora indubbiamente rappresentato dall'introduzione di misure mirate ad aumentare la flessibilità in uscita, dall’altra parte sembrano farsi sempre più urgenti strategie di job redesign utili a creare ambienti lavorativi più favorevoli agli occupati senior o al loro re-impiego. Strategie che non sottovalutino oltretutto l’importanza di offrire agli over 55 tutte gli strumenti necessari ad acquisire le skills, innanzitutto digitali, necessarie per restare al passo con la quarta rivoluzione industriale.
Una spinta alla digitalizzazione che offre importanti opportunità occupazionali, ma pone al tempo stesso questioni di non minor rilievo, prima fra tutte quella dell’obsolescenza delle competenze professionali. I dati dell’ultimo Rapporto sulla competitività dei settori produttivi mostrano come nelle imprese italiane la maggiore propensione alla digitalizzazione si sia effettivamente accompagnata a una maggiore creazione di posti di lavoro: in particolare, tra le cosidette “Digitali compiute” (alto capitale e alta digitalizzazione) e “Digitali incompiute” (capitale fisico medio-basso, basso capitale umano, alta digitalizzazione), un’impresa su due ha aumentato le posizioni lavorative di almeno il 3,5%, un valore superiore alla media complessiva e oltre cinque volte superiore a quello delle imprese non digitalizzate.
Come prevedibile, il traino è particolarmente forte per le professioni ICT ma, sebbene la digital transformation non abbia ancora “sconvolto” il mercato del lavoro in tutti i suoi settori (verosimilmente per l’ancora limitata permeabilità in alcuni ambiti), già si evidenzia, e non solo all'interno dei comparti ICT, un mismatch molto alto tra le competenze digitali e trasversali richieste e quelle effettivamente in possesso dei lavoratori.
In questo quadro, una particolare attenzione va riservata agli over 50: mediamente, il 40% della forza lavoro in Europa di quell'età non ha skills digitali, mentre il 14% non ne ha in misura adeguata. E, spesso, uno degli ostacoli maggiori alla fruizione digitale è oltretutto rappresentato dalla scarsa conoscenza della lingua inglese. Una risposta logica al problema risiede allora nella formazione: una soluzione apparentemente ovvia, ma in verità forse non così “scontata” se si pensa ai dati raccolti da IPSOS per Google, secondo cui nel biennio 2014-2016 solo il 14% dei lavoratori over 50 interessati dalla ricerca ha avuto la possibilità di fruire di attività formative in campo digitale.
Del resto, se il contesto produttivo è oggi tale da richiedere persino ai dipendenti più giovani un costante aggiornamento delle proprie conoscenze e capacità (anzi, l'attenzione nei confronti degli "over" ha forse in parte mascherato questo problema), la crescente presenza di lavoratori senior non può che rappresentare un’ulteriore spinta delle politiche attive per il lavoro, da una parte, verso modelli di formazione professionale continuativa on the job e, dall’altra, verso eventuali soluzioni di ricollocamento e riqualificazione realizzate a mezzo di formazione mirata e su misura. Il tutto senza sottovalutare il coinvolgimento attivo dei lavoratori stessi e la possibilità di instaurare un processo virtuoso di reverse mentoring, agevolando lo scambio di competenze non solo dai profili junior a quelli più senior, ma anche nella direzione opposta.

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 23/6/2018

giovedì 14 marzo 2019

Danni psicologici da social

Un video interessante che conferma quanto penso anch'io già da tempo...
In particolare mi sono convinto che a partire dai vecchi sms, per poi passare ai commenti dei social, ci sia stato un processo di progressiva riduzione della capacità linguistica di esprimere i propri pensieri.
Mi spiego, a scuola ci hanno insegnato l'analisi logica, grammaticale e del periodo; ora, tra i ragazzi avverto una difficoltà a produrre periodi con frasi principali e subordinate, anzi, a malapena si enuncia una frase, visto che si usa fin troppo abbondantemente l'emoticon.
Sembra sia diventato impossibile esprimere un pensiero complesso e per questo si comunichi sempre più a monosillabi...
La cosa mi lascia perplesso, ma gli effetti non sono ancora chiari e tanto meno eventuali rimedi.
Per il momento i comportamenti più saggi sono la prudenza e l'equilibrio nell'utilizzo dei social e dei moderni mezzi di comunicazione.

domenica 24 febbraio 2019

IKIGAI, la ragione di vita.

L'Ikigai (生き甲斐?) (iki-vivere, gai-ragione) è l'equivalente giapponese di espressioni italiane quali "ragione di vita", "ragion d'essere".

L'Ikigai per l'appunto è un termine che, nella cultura giapponese, indica quel qualcosa che conferisce senso alla nostra vita, quella cosa per cui vale la pena alzarsi dal letto la mattina, qualcosa che rende la propria vita significativa e anche utile agli altri.

L'Ikigai non deve essere per forza una qualcosa di grandioso, come portare la gente su Marte o eradicare il cancro dalla faccia della terra.
Essendo un concetto squisitamente personale, capita spesso che le persone sviluppino un proprio scopo partendo da ciò che è accaduto alla propria famiglia o agli amici.
Pensa, ad esempio, a tutte quelle associazioni di beneficenza che vengono fondate dopo la morte di una persona cara e che si impegnano nel sociale.

QUAL E' LA STRUTTURA DELL'IKIGAI? 

L'Ikigai è formato da quattro elementi:

  1. ciò che ami fare,
  2. ciò che sei bravo a fare,
  3. ciò per cui puoi essere pagato,
  4. e ciò di cui il mondo ha bisogno.
E' l'insieme di passione, vocazione, professione e missione.


  • Fare qualcosa senza passione, sebbene si è bravi a farla, si venga pagati e il mondo lo richiede, ci fa sentire confortati ma anche vuoti. E' il caso di quei lavori che disprezziamo, ma che siamo "obbligati" a fare per sopravvivere.
  • Fare qualcosa senza saperla fare veramente, sebbene la si ami, si venga pagati e il mondo lo richiede, ci eccita ma ci dà anche insicurezza perché sappiamo che è tutto precario e che potrebbe svanire da un momento all'altro.
  • Fare qualcosa senza essere pagati, sebbene la si ami, si è bravi a farla e il mondo lo richiede, ci dà gioia ma anche frustrazione. E' la frustrazione di chi sente di essere speciale e che là fuori qualcuno sta sfruttando le sue abilità. E' il caso degli stage e dei volontariati infiniti, dove la persona non viene retribuita come meriterebbe.
  • Fare qualcosa che il mondo non necessita, sebbene la si ami, si è bravi a farla e si venga pagati, dà soddisfazione, ma anche senso di inutilità. Rientrano in questa categoria tutte quelle persone che, per arricchirsi, sanno di dover mentire e danneggiare il prossimo (o l'ambiente).


AVERE UN IKIGAI FA BENE ANCHE AL SONNO

Infine, avere uno scopo, e quindi un buon motivo per alzarsi dal letto la mattina, migliora anche la qualità del sonno, secondo alcuni ricercatori dell'Università di Northwestern.
Jason Ong, uno degli autori, afferma che dare uno scopo nella vita alle persone potrebbe essere una strategia anti-farmaco per eliminare tutti quei disturbi del sonno che caratterizzano la nostra società.
E tu, hai trovato il tuo Ikigai? E se la risposta è sì, qual è e come sta cambiando la tua vita?